Diario di un sopravvissuto agli zombie


Normalmente l’impaccio dei romanzi (come dei film) con protagonisti gli zombie sta nel costante bisogno di reboot.
Ogni volta, il romanzo deve (o dovrebbe), infatti, cominciare con il racconto dell’inizio dell’epidemia e dell’inesorabile dilagare del contagio e, ogni volta, i personaggi della storia che abbiamo appena cominciato devono (o dovrebbero) apprendere con fatica che i morti viventi non hanno più memoria (se non lontana) della loro condizione umana, che hanno fame di parenti e amici e che l’unico modo per fermarli è colpirli alla testa.
La premessa è fastidiosa. Poggia su una realtà appresa infinite volte da personaggi di romanzi analoghi. Ed è del tutto pretestuoso, ormai, per un autore, creare un mondo alternativo al nostro in cui non è mai uscito il capolavoro di Romero e la maschera dello zombie non è la più popolare alle feste di Halloween.

Diario di un sopravvissuto agli zombie non risolve il problema della premessa narrativa. Semmai lo glissa abilmente nascondendosi dietro la pragmatica per cui ad ogni informazione corrisponde una reazione chiara, data da un popolo che si sta abituando al post 11 settembre.
Sorgono voci di una malattia terribile che sconvolge le strade cinesi (significativo che l’America cominci ad avere paura del colosso commerciale e culturale con gli occhi a mandorla) e la notizia, la cui portata è capita solo dal lettore, non desta ancora particolare scalpore. Solo, quando cominciano a trapelare notizie circa il fatto che anche alcuni medici mandati in missione umanitaria sembrano essere stati colpiti dal morbo, la gente comincia a fare provviste ai supermercati. Tutta la prima parte del romanzo è dominata da un clima di allarme antiaereo per cui ognuno si prepara come può anche se non sa bene a cosa. Le informazioni sono poche, ma sufficienti a far sì che i militari più furbi, più scafati, o forse con più senso di proprietà che di patria, comincino a disertare.
Uno di questi si chiude in casa, con provviste e armi e, almeno all’inizio, degli zombie non vede e sente niente.

La prima scelta interessante del romanzo di J. L. Bourne sta nell’evitare, nel racconto del contagio, l’action zombie che i film di oggi ti risolvono ormai nei primi dieci minuti di proiezione. Tutto è spiato dal buco della serratura; tutto è dato da un paio di preoccupanti telefonate da amici che sono rimasti nell’esercito e da quel poco che la televisione riesce a raccontare prima di collassare. Dalla finestra i primi zombie sono solo a distanza, mentre l’americano medio comincia a vedersi franare il suo mito più duraturo: quello della casa, del rifugio.
Romero, in Island of the dead aveva capito, da par suo, quanto la trama zombie flirti, terribile, col mito western della frontiera e dell’indiano che reclama, mostruoso e alieno, un mondo che era suo prima che l’uomo bianco arrivasse. J. L. Bourne rilancia il discorso ripiegandolo in chiave militaresca, mettendo al centro del discorso un soldato che, capito meglio e prima la gravità del pericolo, capisce anche che deve imparare a bastare per se stesso prima di cominciare a costruire una nuova società.

Il racconto di sopravvivenza avanza per le tappe obbligate dell’episodicità di un mondo che si è fatto troppo transeunte per lasciare le certezze in piedi troppo a lungo. Sicché si abbandona la casa quando finiscono le riserve alimentari e si cerca un bunker sotterraneo quando, oltre che ai morti viventi, bisogna sfuggire alle esplosioni nucleari che il governo usa quando non sa più che altro fare. Allo stesso modo la solitudine la si abbandona quando ci si accorge che in due è meno pericoloso cercare provviste, ma si ha dubbi quando si scoprono, legati a delle croci dei morti viventi che forse erano vivi quando sono stati crocefissi.
In breve l’homo homini lupi ha il sopravvento anche sulla comune minaccia della bambina morta il mese scorso e la nuova società umana, se ne sorgerà una, deve confrontarsi con le sue contraddizioni e la sua spinta troppo comoda alla crudeltà gratuita anche nei confronti di chi è vivo. Storie, queste, che l’autore conosce bene dal momento che è stato veramente soldato in guerra e della guerra ha riportato esperienza nelle pagine del romanzo.

Quel che differenzia Diario di un sopravvissuto agli zombie da operazioni analoghe è, infatti, il senso crudo della cronaca diaristica. Il protagonista racconta le cose che gli accadono, ma con la prosa spiccia di chi descrive per ricordare e non per evocare nel lettore. Sicché l’assenza di ricerca della bella forma diventa funzionale all’incalzare degli eventi ed esaltazione di una reazione all’orrore tipicamente americana.

Diario di un sopravvissuto zombie si vuole (e non lo nasconde) come primo capitolo di un ciclo. La sua dimensione romanzesca la costruisce intorno ad un personaggio che, pratico e abbastanza egoista all’inizio, diventa adulto quando ammazza la prima volta, per necessità, un vivo in un mondo di morti. È quello il rito iniziatico obbligato per chi sopravvive abbastanza a lungo nell’epidemia zombie.
Ma l’essere parte di un ciclo lascia al romanzo punti non spiegati, momenti lasciati sospesi come l’idea che gli zombie scampati alle esplosioni nucleari siano più veloci, e forse anche più intelligenti, degli zombie normali. Idee, queste, qui appena toccate fugacemente e che avranno certamente sviluppi posteriori in una narrazione che usa il romanzo solo come trampolino di lancio per una mitologia, quella dei morti viventi, che dilaga nella rete, si sposta per film e videogiochi e non ha più bisogno del corpo morto, ma affascinante, di un libro.

 

 

Autore: J. L. Bourne
TitoloDiario di un sopravvissuto agli zombie
Titolo originaleDay by Day: Armageddon
Traduzione: Francesca Pongiglione
Editore: Multiplayer.it Edizioni
Dati: 256 pp, brossura con alette
Anno: 2012
Prezzo: 14,90 €
Isbn: 978-88-63552-01-0
webinfoScheda libro sul sito Multiplayer.it

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